Imparare a bastarsi: noi, fondatori della nostra felicità
Un articolo dello Scientific American afferma: “La solitudine è in crescita e ci sta letteralmente uccidendo”. Non sono d’accordo con questa provocazione: perché la solitudine dovrebbe ucciderci?! È come ci approcciamo ad essa che cambia la nostra personale visione del mondo. Si pensa troppo spesso che la felicità stia nell’altro e nella relazione con l’altro (familiare, amico o fidanzato che sia): ma se invece riuscissimo ad essere noi stessi fondatori e promotori della nostra stessa felicità? Il percorso sarà senz’altro difficile, la salita sarà molto ripida ma quando si arriva in cima alla montagna dei nostri successi: ah, che soddisfazione e che pacche sulla spalla ci diamo da soli! Da dove partire?! Da piccoli, minuscoli obiettivi. Come quando decidi di metterti a dieta: non puoi svegliarti una mattina di giugno e dire “da oggi basta: devo perdere questi dieci chili entro inizio agosto che poi mi devo mettere in costume”. Lo puoi provare a fare, certo, ma non riuscirai mai a portare a termine il tuo goal, e in fondo lo sai anche tu, a meno che non ti odi così tanto da voler mettere a repentaglio la tua salute. Magari dieci chili non li perderai, ne perderai forse cinque, ma intanto sei a metà percorso e ti pare poco?! Devi essere fiera di te per essere arrivata intanto lì. Lo stesso ragionamento vale con il saper stare da soli: non si può pretendere di essere subito in grado di fare un viaggio di tre settimane in India senza compagnia, ma provare ad andare al cinema o prenotare un ristorante x1 , mi sembrano primi obiettivi più che ragionevoli. Perché rinunciare alla visione di un film che ti piace o a un piatto in uno dei ristoranti che hai nella tua lista “da provare” solo perché nessuno in quel momento può accompagnarti?
Dopo vari momenti di riflessione e domande che mi sono posta e ho posto in giro, credo che siano due i principali fattori che ci impediscono di fare le cose in autonomia: la paura di ritrovarsi a pensare e riflettere troppo su noi stessi, e il giudizio esterno. Per quanto riguarda il primo punto, c’è bisogno di un duro lavoro di introspezione e spesso solo la terapia con uno specialista ci può veramente aiutare. Sul fattore “subire il giudizio esterno” ci viene in aiuto il live show di Daniel Sloss, “puzzle”, che vi consiglio di vedere su Netflix e sul quale vi consiglio di riflettere. Lui afferma che la nostra società proietta nei bambini nati negli ultimi 40 anni l’idea che se non sei con qualcuno sei difettoso, incompleto, non sei integro; hobby, lavoro, interessi sono considerati pezzi esterni del puzzle che è la nostra vita, e qual è la parte centrale? Il partner. Basandosi su questa convinzione finiamo per prendere il pezzo sbagliato e cerchiamo di incastrarcelo comunque, negando che non ci sta. Mettiamo a forza questa persona nella nostra vita, perché preferiamo avere qualcosa piuttosto che niente. Per poi capire, magari dopo svariati anni, che nessuno è il pezzo centrale del nostro puzzle, se non noi stessi. Moltissime persone non hanno imparato a stare da sole e di conseguenza ad amarsi, così hanno assunto qualcuno che lo faccia per loro.
Impariamo quindi ad amare noi stessi prima di permettere agli altri di amarci; non c’è niente di male nel prendersi del tempo per noi e per scoprire chi siamo prima di entrare nel mondo delle relazioni interpersonali.
Come possiamo offrire noi stessi se non sappiamo chi siamo?