Bridget Jones, la nostra sorella maggiore.
Di Silvia Di Gregorio

Prima di Ugly Betty, di Lena Duhnham, prima ancora di Barbie Ferrera di Euphoria, all’alba degli anni 2000 il personaggio femminile che più è riuscito a far immedesimare le nostre sorelle maggiori è stata Bridget Jones.
Siamo nella Londra laburista di Blair fine anni 90 inizio 2000, dimentichiamoci quindi le strade di Manhattan, le donne vincenti in carriera alla Sex and the City. Bridget non è Carrie, ha 32 anni e lavora in una tv pubblica, un classico posto fisso statale, stabile. I suoi genitori, teneri vecchietti di provincia, organizzano feste in preda alla preoccupazione per la figlia e per il suo futuro. Bridget già dalla scena iniziale con All By Myself, si presenta sola e con grandi ansie dettate dalla società a causa dell’età, dalle aspettative degli altri, donna bombardata dalla diet culture che osserva il suo fisico e lo trova imperfetto.
E proprio dietro queste fragilità che Helen Fielding, l’autrice del libro Il Diario di Bridget Jones uscito del 1996 e venduto in 3 milioni di copie, ha scalato le vette facendo diventare Bridget un vero e proprio fenomeno letterario. Helen inizia a scrivere la sceneggiatura per il grande schermo assieme ad altre due penne d’eccezione: Richard Curtis (sceneggiatore di Quattro Matrimoni e Un Funerale e Notting Hill, le due rom com inglesi più di successo) e Andrew Davies (noto per gli adattamenti televisivi per la BBC dei classici letterari come Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento). Sono molteplici le figure chiavi che sono risultate fondamentali per l’operazione produttiva dietro il successo mondiale. Il film divenne un vero e proprio colosso da 22 milioni di euro con Renée Zellweger come protagonista, l’attrice neozelandese, Colin Firth e Hugh Grant. Il film del 2001, diretto da Sharon Maguire e divenuto poi il primo di una saga, ha venduto 15 milioni di copie, tra cinema e dvd consumati nelle case. La ricetta produttiva era perfetta ma ha funzionato anche grazie alla grande identificazione con la protagonista da parte del pubblico. Bridget è un esempio di successo letterario che, adattato nella scrittura cinematografica, è riuscita a creare un legame ancora più forte e diretto con lo spettatore. Soprattutto in termini di rappresentazione di identità di genere, lo stesso lavoro con il pubblico maschile l’ha svolto Stephen Frears con l’adattamento cinematografico di Alta Fedeltà, successo letterario di Nick Horby. Bridget è una figura narrativa che mette in discussione i problemi con la sua persona, con il fisico (ora parleremmo di bodypositivy, di grassofobia) e le tensioni con il mondo esterno.
Le difficoltà e l’accettazione di sé sono elementi che oggi vengono trattati quotidianamente e pubblicamente, ma in Bridget ci si immedesimava per la tristezza e la rabbia senza sviluppare una vera e propria consapevolezza di sé. Durante il film osserviamo spesso come la ricerca ossessiva di una relazione sia abbinata alla risoluzione dei suoi problemi, stilema tipico della romcom. Quando si sente fragile affoga le sue insicurezze nel cibo e nell’alcol. Ma proprio queste caratteristiche, che si allontanano dalla figura moderna di donna femminista consapevole di sé e del suo corpo, sono stati gli elementi chiave amati ed apprezzati dal pubblico di quegli anni. Bridget è un personaggio che si identifica perfettamente nella sua epoca e che si salva grazie al suo approccio autoironico. Ma le tematiche più sottili sono anche quelle del successo lavorativo, nella ricerca di equità e uguaglianza di genere, temi cari al femminismo di quegli anni. Ma non stiamo analizzando se Bridget è o non è femminista. Il suo modo di affrontare il mondo, senza imposizioni spietate di dogmi o pensieri autoimposti crea un flusso di coscienza continuo che riesce a legare direttamente il pubblico attraverso lo strumento del diario, creando così un immaginario caotico ma altresì umano. Come Bridget affronta spavalda la festa in maschera vestita da coniglietto o come supera che il suo fondoschiena sia finito come protagonista sul notiziario cittadino è umano, ironico e del tutto personale.

Contestualizzando la figura di Bridget non possiamo non affrontare il genere definito Chick Flick, che nasceva in quegli anni per un pubblico più “leggero”.
Chick deriva da chicken anche tradotto nel terribile termine “pollastra” e “flick” cinema, ovvero quei generi di film degli anni ’90 studiati per un pubblico “femminile” riguardanti temi di coppia attraverso toni ironici. La paladina indiscussa della letteratura chick è Sophie Kinsella, per intenderci. Se avete mai letto un libro della Kinsella, c’è sempre qualcosa che nel 2020 dovrebbe farci rabbrividire. Ma contestualizzando questo genere, soprattutto crescendo a a pane e rom com, vivendo in diverse famiglie (un po’ alla modern family) con maggioranza femminile a metà degli anni novanta ,questo genere è stato un contrasto molto importante nell’emotività e nella fragilità della figura femminile. Per questo motivo Bridget è sempre stata abbinata al chick flick senza andare a fondo però con una rilettura diversa, come una sorella maggiore ancora acerba ma solidale, che in qualche modo ci dà spunti verso l’attuale femminismo 2.0.
In quasi vent’anni dal film si sono accumulate le critiche più disparate. L’antifemminismo feroce di Suzanne Moore la definisce un ruolo di donna negativo per l’ossessione delle diete e del materialismo. Il personaggio di Bridget è stato persino tacciato di essere la causa responsabile dei cali di vendite del vino Chardonnay, proprio perché il suo preferito, facendo alzare le richieste di Pinot Grigio, suo feroce competitor. Bridget non è quindi una raffinata e indipendente Pinot Grigio Girls, citando Lady Gaga ma sicuramente l’odio nei suoi confronti è stato eccessivo e dettato dal suo personaggio non del tutto vincente, non del tutto attivo ma tremendamente emotiva e dipendente dagli altri.
Ma Reneè, Sharon, Helen e Bridget sono donne che non hanno vissuto il ’68, sono un’intera generazione che rispecchia le nostre mamme, le zie, le sorelle maggiori. Spesso sento solo le analisi più recenti, da Girls a Euphoria o quelle delle nostre nonne della seconda ondata del femminismo. Come se saltassimo questa fetta importante tra gli anni ’90 al 2010, perché non abbastanza forte, non abbastanza femminista e quindi ignorando i personaggi della pop culture scoprendo una linea temporale fallata. Ma l’influenza c’è stata soprattutto nelle nostre famiglie, dove le donne non hanno combattuto il femminismo più battagliero e come ci ricorda Jessica Reaves sul Time, Bridget (e la donna che rappresenta) non vuole essere vista o identificata come una eroina, né una paladina del femminismo 2.0, non lo è mai stata. La nostra Bridget è una tragicomica sorella che affronta le problematiche con humor inglese e camuffa i problemi verso un difficile percorso verso l’accettazione di sé, fallendo molte volte. Un processo molto più implicito e sottile anche da comprendere. Per noi, un pubblico diverso, più giovane e distaccato, è interessante non solo rielaborare il film abbandonando le gelide critiche antifemministe ma ragionando sulla contestualizzazione.
Cosa ci ha lasciato nel nostro immaginario, che è quello più vicino a noi anagraficamente e geograficamente. Per non parlare di cogliere l’amore di Helen per la letteratura con i numerosi riferimenti ai colti e culturalmente imponenti classici inglesi, in primis Jane Austen. Il triangolo amoroso che si crea, la figura di Mr Darcy abbinata a Colin Firth, l’eredità letteraria è presente e rombante. Bridget non è sola, è stata un’icona della pop culture anni 2000 perché aveva dentro di sé tutta quella fragilità, quell’essere donna complessa in un mondo nuovo e complesso. Pronipote di Emma e Elizabeth Bennet, riesce a far rivivere un mondo femminile attraverso il suo flusso di coscienza nel proprio diario.