Genderless Fashion: il futuro è rivoluzione?
Specchio della nostra società, strumento di globalizzazione, veicolo di espressione, chi pensa che la moda sia solo paillettes e merletti è un ingenuo.
Da sempre la moda riflette, con creatività ed estetica, cultura e costumi, società ed individui, narrandoci (o anticipando?), attraverso cartamodelli e tessuti, la storia dei nostri tempi.
Basti pensare all prime lotte femministe espresse dalla moda con coraggio e provocazione. Erano gli anni ’60, quando Yves Saint Laurent portò per la prima volta in passerella un modello che rivoluzionò il costume femminile, Le Smoking, un classico smoking da uomo pensato per una donna. All’epeca la scelta di Yves Saint Laurent scandalizzò il pubblico, non era mai stato concepito prima che il classico abito maschile (Smoking = Abito da fumo) potesse essere indossato da una donna.
E se negli anni ’60 un capo maschile indossato da una donna poteva essere etichettato come rivoluzione, cosa potremmo considerare rivoluzione oggi?
Sulla bocca di tutti, in modo più o meno ragionato, c’è il Genderless fashion. Collezioni studiate per non avere genere, adattabili tanto al genere femminile quanto a quello maschile, per una moda che vuole sfidare, rompere ed abbattere gli stereotipi e le etichette, che lotta per la piena libertà di espressione.
Ma come nasce il genderless fashion? Può davvero essere considerato la rivoluzione del nostro secolo?
Per trovare il primo esempio di genderless fashion dobbiamo fare un grande salto nel passato, un salto che arriva alle avanguardie storiche novecentesche, quando un capo unisex era talmente rivoluzionato da poter essere solo teorizzato. Nel 1920 i fratelli Michahelles (Thayaht e Ram), artisti appartenenti alla corrente del futurismo italiano, portarono per la prima volta all’attenzione il progetto Tuta. La tuta dei fratelli Michahelles altro non era che quella che oggi definiremmo una jumpsuit, un abito da lavoro adatto sia agli uomini che alle donne, un capo “universale” che voleva inneggiare alla rivoluzione e sovversione degli schemi sociali.
Quello che allora poteva sembrare solo un delirio artistico, risultò essere profetico. La tuta infatti, in tempi correnti, grazie alla sua struttura morbida e spesso oversize, viene utilizzata dai brand come maggiore escamotage per creare facilmente collezioni unisex. Basti pensare alla capsule collection disegnata da Billie Eilish per Bershka, in cui felponi XXL e pantaloni baggy diventano sia collezione femminile che maschile.
Questo però potrebbe essere considerato tanto rivoluzionario negli anni ’20 del novecento, quanto banale negli anni ’20 del duemila.
Studiare e disegnare una collezione Ungendered non vuol dire solo creare abiti oversize che nascondano qualsiasi forma ci sia sotto, lo scopo sarebbe quello di proporre una moda che si elevi all’identità di genere, non che annulli il sesso o porti una delle due parti verso l’altro.
A comprendere questo pensiero prima di ogni altro fu Jacques Esterel, precursore e rivoluzionario, maestro indiscusso di fashion design, l’uomo che ad oggi potrebbe essere considerato il padre fondatore, ante litteram, del genderless fashion. Nel 1966 Jacques Esterel confezionò per la prima volta su una passerella gonne da uomo e capi totalmente unisex, aderenti e slimfit.
Una rivoluzione che sulla runway non passò inosservata nei decenni a venire: regina della contaminazione di genere degli anni '70 fu Vivienne Westwood, che negli anni ’80 lasciò il posto all’ungendered di Rei Kawakubo.
Ad oggi sempre più brand (dalle grandi maison ai piccoli artigiani) sono schierati verso una moda gender neutral, una moda che abbatte tutti gli schemi, svincolata da ogni forma di etichetta: inclusiva e universale.
Tra i nomi di spicco non si può non citare Gucci e il suo first designer Alessandro Michele. Genio creativo del nostro secolo, Michele da tempo lotta per collezioni seasonless e genderless, ricevendo l'appellativo di visionario fuori dagli schemi. Quest’anno, Alessandro Michele ha presentato Gucci MX, la piattaforma di e-shop totalmente gender fluid, dove i capi vengono indossati da modell* gender neutral.
Ma l’e-shop di Gucci potrebbe essere considerato novità assoluta solo se contestualizzato al suo target d’alta moda e alle sue origini italiane. Gli shop della cultura streetwear e suburbana che già da anni propongo abbigliamento e reparti genderless non sono pochi: il berlinese Studio183 nato nel 2015, l'americano Agender di Selfridges dello stesso anno, il Phluid Project di Rob Smith nato nel 2018, e l’Insane di Parigi del 2019, sono solo alcuni esempi di realtà nate in contesti e nazioni diverse, ma tutte con unica mission, "il nostro è uno spazio privo di giudizio, in cui ogni persona ha l’opportunità di esplorare e celebrare il proprio io autentico” come direbbe Rob Smith.
E così come designer e rivenditori sono pronti al cambiamento, lo sono anche i consumatori, soprattutto la generazione Z. Secondo un dato esposto alla WWD Cultural Conference, il 56% dei consumatori della generazione Z, quindi più della metà, fanno acquisti al di fuori dell’area di genere canonicamente assegnata.
Da alcuni visto ancora come rivoluzione, da altri accettato se non superato, il genderless fashion sembrerebbe rappresentare un mondo senza distinzioni di genere, il futuro della moda.
E tu? Ti senti pront*?