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Gli opposti si attraggono davvero?


Photo by Joseph Szabo


Qualche mese fa ho visto un film a cui sto pensando intensamente solo negli ultimi giorni. Non so se è una cosa che capita anche alle altre persone, ma a me succede spesso di vivere una determinata esperienza oggi e di realizzarla e digerirla soltanto settimane più tardi. Ad ogni modo, il film di cui parlo è Take This Waltz di Sarah Polley e, nonostante la protagonista sia Michelle Williams (attrice dall’indubbio talento che mi ha sempre infastidito da morire, probabilmente per come calza talmente bene il ruolo dell’inetta che non riesco a non pensare non lo sia anche nella vita reale), è un capolavoro in cui vale la pena addentrarsi, quanto meno per la confusione emotiva generale che è in grado di scatenare.

Senza spoilerare nulla, la storia gira attorno a una coppia sposata costantemente in bilico tra la tenerezza che si riserva a un amico con cui la vita è stata particolarmente crudele e l’esaurimento nervoso mai realmente esternato e oramai tramutatosi in asettica apatia. In questa cornice si inserisce il nuovo vicino di casa, un uomo che prima di definire affascinante, un poco misterioso e sfrontato, inserirei nella rara categoria delle persone che chiedono quello che vogliono riuscendo a mantenere una delicata riservatezza di fondo. Quelli che Margot l’inetta ha di fronte, sono dunque due uomini talmente diversi tra loro da non poter essere messi a paragone, l’uno per certi versi molto simile a lei e accomodante, l’altro distante anni luce e destabilizzante anche solo nel modo in cui cammina. Da una parte la tradizione, dall’altra la modernità che non conosce, che la spaventa e la attrae inevitabilmente. Mentre tento di mandare giù il film non senza difficoltà, penso a come questo binomio sia presente in tutte le relazioni che abbiamo, siano esse più o meno lunghe, concrete o platoniche e mi risulta spontaneo il legame con una delle frasi fatte più mainstream che ci abbiano propinato negli anni e che vede gli opposti attrarsi come il più e il meno delle pile del vibratore che nascondi nel comodino a casa dei tuoi, sotto alla biancheria. Sembra quasi che il dualismo che oppone tradizione e modernità trovi un riflesso in quello che vede due persone viaggiare vicine o occupare una posizione diametralmente opposta sull’orbita che stanno percorrendo. Ma perché qualcuno ha deciso di farci funzionare come fossimo delle pile o perché, al contrario, non dovremmo credergli?

Essere diversa da un’altra persona è sexy. E rivendicare la propria unicità ha una carica sensuale incredibile. Parlare con un uomo o una donna verso cui si prova una più o meno forte attrazione e notare la diversità nelle attitudini che ci separano, marcando la distanza che c’è tra noi e loro è qualcosa che va oltre la soddisfazione: cela un erotismo sottile, un fascino difficile da descrivere a parole e assimilabile a quell’eccitazione effervescente che fa sudare freddo in svariate parti del corpo e sì, tra queste parti del corpo sono coinvolte anche quelle sotto le mutande.

Photo by Joseph Szabo

Accade spesso che, parlando di relazioni o di potenziali tali, per motivi più o meno noti si dia immediata rilevanza alle differenze che emergono da un rapporto, a scapito delle similitudini che lo vivono. È un po’ come se da un lato l’obiettivo di ognuno di noi fosse quello di trovare una persona che si incastri e scivoli al meglio con i propri ingranaggi (almeno per un periodo della vita) e contemporaneamente, dall’altro, quando questo sembra accadere davvero, ci si trasformasse in una vecchia pazza che scappa da ciò che fino al giorno prima avrebbe ucciso per avere.

Ora, se l’insoddisfazione la si mangia a colazione, qualche problema da risolvere potrebbe effettivamente esistere, ma nella maggior parte dei casi non è questo il punto su cui fare pressione. La verità è che, con la stessa carica che sottende la convinzione di dover trovare qualcuno di simile a noi stessi, siamo spontaneamente attirati dal diverso, perché ci permette di affermare la nostra individualità, cosa che in un modo o nell’altro è sempre importante, anche quando facciamo di tutto per sabotarla.

C’è qualcosa di estremamente strappa mutande nello sbattere in faccia a chi si ha davanti l’esclusività del proprio essere (e aggiungerei, nel ricevere lo stesso trattamento). Rimarcare con sicurezza il confine che ci definisce in maniera unica ed essenziale, infatti, non significa giocare la carta dell’orgoglio (anche se a volte può essere divertente farlo) e, sopra a tutto, non è sinonimo di impenetrabilità, anzi. Al contrario, è proprio su quel confine che si consuma la battaglia per cui si perde la testa. ‘No one here wants to fight me like you do’ sono le parole di una canzone che ha sempre riassunto in modo impeccabile la mia personalissima concezione di qualsiasi cosa talmente combattiva e folle da funzionare perfettamente, si stia parlando di amore, sesso o qualsiasi altra cosa.

Su quella linea non troppo sottile si fissa tutto ciò che fa venire la nausea appena ne si annusa il sentore: roba che ti fa scappare a gambe levate, principi che pregiudicano la buona riuscita di un rapporto in maniera inequivocabile, qualunque ne sia la natura. Per capirci, gente realmente convinta che i bisessuali siano solo confusi, creature fantastiche metà pene e metà vagina in attesa della trasformazione definitiva nell’uno o nell’altra.

Tolti questi capisaldi che ognuno fissa come condizione necessaria per la sussistenza di qualsiasi tipo di interazione, tutto il resto vale molto meno di quanto probabilmente pensiamo. Per onestà intellettuale e non, mi sento di aggiungere che ciò non esclude minimamente l’eventualità che nella vita io possa inciampare sul letto di un giovane neonazi o che non l’abbia già fatto, salvo poi bruciargli la macchina appena dopo averlo capito e sparire. Ma in ogni caso, se da una parte le persone che si scelgono ci definiscono, dall’altra è doveroso riconoscere che finire a letto con qualcuno che poi comprendiamo darci l’orticaria non ci trasforma in persone altrettanto pruriginose, ma solo in animali che seguono il proprio istinto, a volte completamente slegato da quello che pensano di essere. Ancora, va benissimo così.


Photo by Joseph Szabo


Tornando al resto di cui sopra, qualche sera fa bevevo birra dalla bottiglia e parlavo con una persona cara di quanto sia fondamentale destrutturare l’importanza che attribuiamo ai cosiddetti valori. Fatta eccezione per i principi imprescindibili precedentemente citati, ragionavamo su come dovremmo arrenderci al fatto che, così come tutto attorno a noi e dentro di noi è soggetto a mutevolezza, quello che oggi consideriamo un valore, tra qualche giorno, mese o anno potrebbe non esserlo più. Va da sé che quindi la scelta più saggia sia quella di disfarsene e agire assecondando le proprie pulsioni più oneste ed intestine. I Rolling Stones dicevano che you can’t always get what you want, but if you try sometimes well, you might find, you get what you need. Ecco, il concetto è un po’ questo.

Stamattina, invece, un’altra amica mi ha confessato di essere molto indulgente con quelli che reputa essere i difetti del suo ragazzo (che in ogni caso non verrà mai a saperlo): proprio perché non sono quelli che lei riconosce in se stessa, mi diceva di riuscire ad attutirli in maniera molto più morbida, cosa che invece non è riuscita a perdonare in altre relazioni in cui intravedeva nell’altra persona il proprio riflesso. Mentre parlava, mi sono resa conto di come stessimo lentamente scivolando nel concetto di complementarietà, argomento che se preso in maniera isolata non reputo avere un’accezione così positiva all’interno di una relazione, ma che in questo caso acquista pienamente senso. Penso a Normal People, libro o serie che si preferisca: il mio immaginario ha registrato la storia d’amore tra i due protagonisti, Marianne e Connell, come un lungo e fastidioso singhiozzo di cui non si comprende la causa, eppure non ce la si fa a non rimanerci sotto. La chimica che c’è tra i due, persone estremamente diverse l’una dall’altra, è palpabile in ogni istante: i lunghi silenzi che li avvolgono rendono tangibile l’impressione che si restituiscano a vicenda un modo unico al mondo di comprendersi che non ha bisogno di parole, senza però mai prendere una reale posizione ne assumersene la responsabilità, motivo per cui ci si innervosisce spesso guardandoli.


Photo by Joseph Szabo


Dopo più di un migliaio di parole, non sono in grado di dare una risposta univoca alla domanda se gli opposti si attraggono o meno, ma credo sarei abbastanza soddisfatta se si dicesse che l’obiettivo non è controllare maniacalmente quanto il nostro calco corrisponda a quello di un’altra persona, ma quanto le differenze che lo rendono unico siano compatibili con quelle dell’altro. Quindi forse gli opposti si attraggono o forse no, ma la verità è che non è importante perché non siamo delle pile contrassegnate da un più e da un meno, non funzioniamo come tali e non dovremmo quindi sigillarci all’interno di inutili regole.

Per la soundtrack del giorno, I heard the jukebox playing:

  • Combat Baby, Metric. Nessuno qui mi vuole combattere come fai tu.

  • You Can’t Always Get What You Want, Rolling Stones. Per la scelta migliore, invece che quella giusta

  • Mystery of Love, Sufjan Stevens. Nella colonna sonora di Call me by your name, così per chiudere senza versare mezza lacrima.

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