top of page

KUBE

Il corpo e la maternità nel cinema delle donne contemporaneo




Il 2020 – non c’è neanche bisogno di dirlo - è stato un anno sfortunato sotto molti punti di vista, con un diffuso arresto delle produzioni ciò includendo ovviamente anche il settore dell’audiovisivo. L’industria cinematografica, infatti, è stata fortemente penalizzata e ciò ha portato a molti ritardi nella distribuzione di alcuni titoli, usciti a volte solo nelle piattaforme, andando a pesare su un sistema già in crisi. Questo però, è stato anche un anno di piccole vittorie, che, complici anche le condizioni eccezionali, hanno portato alla ribalta il cinema delle donne che sono state effettivamente le protagoniste della scorsa stagione degli Oscar e ad oggi la “tendenza” non sembra essersi arrestata. Non è questa la sede per affrontare i motivi di tale tendenza e chiedersi se c’è di mezzo il pinkwashing o si è realmente arrivati a una consapevolezza maggiore sul cinema femminile, ma nonostante ciò lo scorso 2021 è stato un anno altrettanto prolifico per le donne dietro la macchina da presa: hanno trionfato infatti prima a Cannes, con Titane di Julia Ducournau e poi anche a Venezia con L'Événement di Audrey Diwan. Entrambi non solo quindi vedono i dipartimenti di regia e sceneggiatura occupati da donne, ma soprattutto appartengono a un tipo di cinema che esplora temi fortemente collegati all’esperienza femminile. Così, allo stesso tempo, fa anche The Worst Person in the World, film dello stesso anno scritto e diretto invece da due uomini, i norvegesi Joachim Trier ed Eskil Vogt, un lungometraggio che affronta in maniera specifica e cruda l’entrata bruta nell’età adulta da un punto di vista femminile. La questione di cui è interessante trattare è il modo in cui questi tre film si rapportano alla relazione che intercorre tra donna come soggetto, corpo femminile e maternità e il modo in cui i tre lungometraggi si pongono come testimoni di esperienze tanto personali quanto universali.


Il corpo cyborg e la famiglia post-umana


Julia Ducournau, regista parigina trentottenne, già famosa per il suo horror Raw (2016) è una dei maestri del body horror contemporaneo. Il suo cinema tratta esplicitamente la mutazione, il corporeo e l’organico e registi come David Cronenberg e John Carpenter risultano evidenti tra le sue ispirazioni. Il suo film d’esordio Raw era un lungometraggio crudo (scusate il gioco di parole) e spietato in cui veniva accostata metaforicamente il cannibalismo con l’entrata nell’età adulta, risultando in un coming of age horror, dove la scoperta della sessualità femminile era paragonata a una mutazione fisica, una fame di corpi diventata letterale. Sempre questo trattamento del corpo come manifestazione di un cambiamento del “subconscio” è evidente anche dal cortometraggio del 2011 Junior, nel quale la tredicenne Justine (interpretata dalla collaboratrice frequente Garance Marillier) subisce una metamorfosi fisica violenta e dolorosa, nella quale è facile riconoscere lo stupore e la sofferenza della preadolescenza. In Titane l’elemento della trasformazione corporea raggiunge il culmine: la protagonista Alexia, interpretata dalla giornalista e modella Agathe Rousselle, è una ballerina alla quale – a causa di un incidente - è stata impiantata una placca di titanio nel cranio. L’elemento del titanio che rende la protagonista un ibrido in qualche modo, è lo stesso che condivide con l’automobile con la quale ha un rapporto sessuale dal quale rimane incinta. Questa maternità “mostruosa” pone molti interrogativi sulla natura del corpo, ancor di più perché Alexia, che è una giovane donna con tendenze omicide, dopo aver provocato la morte della sua famiglia scappa e cerca di proteggersi adottando l’identità di Adrien, un ragazzo scomparso tempo prima. Sotto questa nuova identità, la giovane si fa “adottare” dal padre di Adrien, Vincent (Vincent Lindon), che la prende per suo figlio. Alexia quindi è una donna ibrida, un cyborg harawayano nel senso di una fusione tra corpo e macchina, ma si presenta però da questo punto in poi come un uomo. Quali sono allora i limiti del corpo? Titane, in fondo, è soprattutto un film sulla messa in discussione e l’annullamento dei legami familiari e dei limiti corporei e soprattutto di gender. Vincent, in realtà, non è davvero interessato se Alexia/Adrien sia davvero suo figlio, perché il bisogno di relazioni prevale e sfuma in questo senso anche il concetto stesso di parentela proprio nella lezione di Donna Haraway la quale spinge non a generare figli ma parentele. Il corpo femminile negli horror, lo testimoniano studiose come Carol Clover e Julia Kristeva, è sempre stato un sito utile a indagare le paure di contaminazione e di mutazione nell’uomo e in Titane il corpo femminile e il concetto di maternità ibrida servono proprio come metafora e ripensamento dei limiti dell’identità come la conosciamo fino ad oggi. è emblematico a proposito lo stesso finale del film: Alexia partorisce non una macchina, ma un neonato parzialmente di titano, proprio come lei. Un vero e proprio cyborg che rappresenta il futuro.


La maternità: tappa di crescita femminile?


Il corpo e la maternità come espressioni delle convenzioni sociali e dell’ansia generazionale invece è l’aspetto che affronta Joachim Trier nel suo The Worst Person in the World. Nonostante appunto qui si analizza un film diretto da un uomo, il punto di vista è decisamente femminile e il lungometraggio appare cogliere con sensibilità quegli aspetti tipici di un’età cruciale quanto poco esplorata sul grande schermo. Julie (Renate Reinsve), la protagonista del film, è una giovane donna che come molte delle sue spettatrici non ha ancora deciso cosa vuole fare “da grande”, è insicura e arrabbiata e vede ogni scelta come un ostacolo insormontabile. La storia con Aksel, fumettista di quindici anni più grande, le dà sicurezza e stabilità, ma contemporaneamente proprio questa differenza d’età aumenta la pressione sociale che la donna già percepisce: gli amici di lui sono sposati e hanno dei bambini e ben presto anche Aksel e Julie vanno a convivere, ma forse da parte di quest’ultima non c’è ancora una piena convinzione nell’iniziare una famiglia e tutto ciò porta poi a una dolorosa e inevitabile rottura.

È proprio poi nella relazione con Eivind, coetaneo incontrato a una festa, che il tema della maternità ritorna, una prima volta sottoforma di trip allucinogeno: i due, insieme a una coppia di amici, decidono di assumere dei funghetti che porteranno alla sequenza più psichedelica e onirica del film in cui si manifestano le paure di Julie riguardo l’invecchiamento, la genitorialità e il rapporto appunto con il materno. Questo timore, poi, si concretizza quando – in un momento di forte crisi per la coppia – Julie rimane incinta. Indecisa se tenere o no il bambino, nel momento di maggiore stress della sua vita già ricca di avvenimenti luttuosi, la donna subisce un aborto spontaneo: il corpo ha brutalmente deciso per lei. La perdita di Julie è tanto una riflessione fisica della crisi psicologica della protagonista quanto assimilabile a una riflessione sul rapporto delle millennial con l’idea di essere madri. Quello di Julie a 30 anni è tuttavia un corpo libero, che ancora vuole esplorare sensorialmente il mondo ed effettuare una crescita autonoma e individuale di esplorazione del sé. Uno dei tanti temi importanti che affronta il lungometraggio di Trier, infatti, è proprio l’autonomia femminile, l’autodeterminazione di una protagonista che sembra sempre schiacciata sia dalle aspettative della società sia dai ruoli maschili della vita, a partire dal padre e poi anche i vari partner. In ogni caso mostrare un aborto spontaneo al cinema con una tale attenzione senza gravarlo di patetismo è una soluzione inedita e che appare nel contesto molto più rispettosa e coerente col messaggio del film. Assistendo alla crescita della protagonista ne condividiamo le paure e le ansie che sono essenzialmente anche le nostre: in un mondo in cui raggiungere l’indipendenza per le donne sembra un’impresa impossibile la maternità non è più una priorità e la stabilità diventa spaventosa quando non si ricevono garanzie da parte di nessuno.


Libere di scegliere


Vincitore del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia 2021, L'Événement è un film che tratta esplicitamente il tema dell’aborto. Il punto di vista della regista Audrey Diwan è chiaro già fin dal titolo, traducibile italiano con “l’evento”. Per Treccani l’evento è “qualcosa che succede, avvenimento, caso, fatto che è avvenuto” e ciò fa già intuire che il tono della vicenda trattata presenta la gravidanza puramente come un accadimento. E infatti nel lungometraggio la notizia viene presentata agli spettatori fin da subito come fatto compiuto: Anne (Anamaria Vartolomei) scopre di essere incinta per caso, durante una visita medica.

La ragazza, come tutte le sue coetanee, passa le giornate a studiare, frequentare le amiche e andare a ballare: ci troviamo all’inizio degli anni Sessanta, le donne lottano per la loro indipendenza e soprattutto quelle di classe media come Anne iniziano ad avere la libertà e la possibilità di studiare e avere una propria vita sociale. Conscia che una eventuale gravidanza potrebbe ostacolare i suoi sogni e la sua carriera universitaria brillante, la protagonista decide di abortire in un paese dove tale pratica è illegale. La scelta di Anne (questo è anche il titolo italiano) è una scelta coraggiosa quanto “folle”: i medici si rifiutano di aiutarla, alcuni addirittura la raggirano e la giovane deve iniziare una ricerca clandestina pericolosa, un viaggio che compie completamente da sola. Manca del tutto nel film infatti la dimensione collettiva, sono assenti citazioni ai gruppi femministi che fin dalla fine degli anni ’50 si sono battute per il diritto all’aborto, ma è una chiara mossa della regista voler rappresentare la solitudine che una donna affronta – purtroppo ancor’oggi - quando sceglie autonomamente per interrompere una gravidanza, decidendo sul proprio corpo. Emarginata dalle compagne che iniziano a vederla come una “criminale” non fornendole nessun tipo di supporto. Anne in questo viaggio doloroso e solitario, trova una “faiseuse d’anges” (letteralmente “creatrice di angeli”, nome chiaramente dispregiativo per indicare una donna che pratica l’aborto su altre donne) che sotto lauto compenso monetario la aiuta a sbarazzarsi di quella gravidanza indesiderata, ma con rischi altissimi: potrebbe morire oppure, nel caso sopravvivesse, andare in carcere. Il bisogno di autodeterminazione di Anne però, come quello di tante altre donne dell’epoca, è molto più forte di qualsiasi paura ed è disposta a rischiare la vita piuttosto che viverne una che non le si addice e rinunciare ai suoi sogni di realizzazione personale. L’attualissimo discorso che porta avanti L'Événement, quindi, riguarda fortemente la scelta e il senso di isolamento delle donne che prendono delle decisioni al di fuori ancora della rigidità dello stato e della famiglia come istituzioni, sottolineando poi il dolore e la frustrazione che ne derivano.


Ciò che emerge dunque da questi tre esempi di lungometraggi chiaramente molto diversi da loro per temi, scrittura e generi, è la necessità di continuare a narrare le storie di donne da un punto di vista sempre più intimo e specifico per far emergere questioni cruciali per l’esperienza universale femminile. Né Alexia, né Julie e né Anne scelgono esplicitamente e volontariamente di accogliere vita nel grembo e ciò sembra quanto mai sintomatico di una necessità di ripensare la maternità e il rapporto tra corpo e femminile, in una contemporaneità in cui lo stesso concetto di famiglia si è evoluto e così sono cambiati anche i desideri e i bisogni delle donne.


L'arte da questo punto di vista è sempre stata in grado di riflettere i cambiamenti in atto nella società ed è proprio soprattutto negli ultimi tempi che è emerso un cinema molto più aperto e accogliente nei confronti di nuove soggettività e di nuovi aspetti di analizzare il reale, soprattutto quando si parla dell'esistenza umana. Esempi peculiari sono lungometraggi come Promising Young Woman e Nomadland, il primo rappresentando amaramente e in maniera realistica le conseguenze sociali e non che seguono una violenza sessuale e il secondo mostrando invece un delle tante scelta di vita possibili al di là delle convenzioni che diventa una vera e propria riflessione esistenziale. Quello che hanno in comune le protagoniste di questi film è il fatto di presentarsi come soggetti che sfidano la norma patriarcale, potenzialmente sovvertendola imponendo il diritto di scegliere sul proprio corpo e di ribaltare i ruoli tradizionali fino a quel momento imposti.

83 visualizzazioni
bottom of page