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«In Italia manca una cultura che educhi all’accoglienza e all’inclusione»

«In Italia manca una cultura che educhi all’accoglienza e all’inclusione». Intervista a Elisabetta Ferrari membro del coordinamento di GenderLens.



Dalla necessità di creare uno spazio di informazione, «dove la varianza di genere nell’infanzia e nell’adolescenza non fosse considerata come una patologia, ma come una delle tante espressioni della diversità umana», nasce GenderLens, un’associazione di genitori, costituita con lo scopo di trattare il tema della gender variance in età evolutiva con un approccio transpositivo, cioè di ascolto, rispetto e di accompagnamento affermativo verso le esperienze di giovani persone trans. Il Progetto GenderLens, infatti, non solo vuole informare correttamente sui concetti fondamentali che riguardano l’identità di genere e la sua espressione, ma garantire un supporto concreto alle famiglie che possono così conoscersi, confrontarsi e condividere le proprie esperienze.



Dell’attuale narrazione italiana del transgenderismo, delle micro e macro-aggressioni transfobiche e del ruolo dei genitori e degli educatori di ragazzə con varianza di genere, ne abbiamo parlato con Elisabetta Ferrari, membro del coordinamento di GenderLens. «Nel 2017, quando è nato il Progetto GenderLens, mentre in altri paesi europei il tema della varianza di genere era una realtà oggettiva per cui associazioni di genitori si battevano già da tempo per ottenere visibilità e diritti, in Italia nessuno ne parlava», ha dichiarato Ferrari. «Sembrava che, qui da noi, questa popolazione non esistesse ed è per questo motivo che un gruppo di famiglie si è costituito come collettivo con lo scopo non solo di sensibilizzare sul tema, ma anche per poter dire, “l’infanzia trans esiste!”»




Le difficoltà che incontrano i genitori con bambinə gender variant sono tante, una tra queste è reperire le informazioni necessarie per accompagnare e supportare i propri figli. «Noi come genitori, quando ci siamo trovati ad affrontare questa situazione, abbiamo cercato qualcuno che potesse spiegarci cosa fare. Non è stato facile perché nessuna figura, dal pediatra al medico di base era formata su questi temi né sapeva indirizzarci». L’attuale narrazione italiana della gender variance, infatti, viene accompagnata da una cornice medico-patologica, tant’è che quando si parla di adolescenti o persone trans le si associa in modo quasi automatico al concetto di disforia di genere. «In realtà, quest’ultima deriva da una condizione di stigma e di discriminazione costante che comincia dal momento in cui queste creature infrangono le norme di genere, costruite su un sistema binario femminile/ maschile, su cui si fonda l’intera società. Come si fa in un contesto simile a non maturare sofferenze e a non sentirsi sbagliati?».


Nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) abbia rimosso la disforia di genere dall’elenco delle malattie mentali nel 2018, tutta la vita delle persone trans, continua a dipendere da una diagnosi. «il certificato di disforia di genere, stilato da professionisti della salute, stabilisce se una persona sia “sufficientemente trans” per accedere ai trattamenti di affermazione del genere. Quello che dobbiamo fare è smantellare l’idea della patologizzazione, perché ciò che manca in Italia, al contrario di altri paesi, è il diritto fondamentale di poter autoaffermare il proprio genere».


Basterebbe provare a sovvertire a narrazione e ad utilizzare un approccio transpositivo, che smetta di descrivere e pensare a queste persone come “intrappolate in un corpo sbagliato”.

Ed è in questo contesto, che il ruolo della famiglia diventa cruciale, la quale deve accompagnare questə bambinə, dando loro la sicurezza di essere amatə e rispettatə. Le famiglie, dal canto loro, pretendono spazi sicuri per le loro creature, liberi da pregiudizi e stereotipi.




Anche perché, «a queste piccole persone manca completamente un tipo di immaginario in cui possono riconoscersi, poiché tutto intorno a loro è fortemente genderizzato», ha dichiarato Elisabetta. Dal colore del grembiule ai giochi di ruolo: nel momento in cui ti viene assegnato il sesso biologico in base ai genitali, ti viene anche assegnato il bagno in cui devi recarti, i vestiti che devi indossare e gli sport che devi praticare. Nessuna scelta è neutra, ma contribuisce a rafforzare le aspettative sociali legate al sesso di appartenenza. Questo tipo di approccio risulta fortemente discriminante non solo per le piccole persone gender variant, ma anche per quelle cisgender.


La stessa transizione sociale del genere, processo che porta la piccola persona o l’adolescente a scegliere il nome di elezione e che non prevede l’assunzione di farmaci, risulta essere ancora faticoso per le famiglie, perché accostato ad un immaginario profondamente sbagliato. «Anche nei contesti scolastici c’è ancora una scarsa preparazione sul tema ed è per questo che da alcuni anni GenderLens si batte affinché nelle scuole, di ogni ordine e grado, venga attivata la Carriera Alias per le giovani persone trans. Una semplice procedura che comporta il cambio di nome anagrafico con quello di elezione sul registro elettronico, in modo che sia tutelata la privacy e la sicurezza della persona, non più costretta a fare coming out forzati e continui davanti a tuttə».


Anche l’assunzione di bloccanti, esattamente come la transizione sociale, è un processo completamente reversibile, ma anche questo, demonizzato «Nella fase puberale ragazzine e ragazzini gender variant vedono il loro corpo modificarsi in linea con il sesso biologico e questo può creare forte disagio. In questa fase dello sviluppo, assumere i bloccanti significa sospendere la pubertà per un certo lasso di tempo, così da avere un periodo necessario per esplorare al meglio la propria identità di genere e decidere cosa fare in seguito», ha dichiarato Elisabetta. «Questi farmaci vengono prescritti in Italia da circa 40 anni nei casi di pubertà precoci dai pediatri stessi. Invece, quando si parla di prescriverli a giovani persone trans, nonostante vengano concessi al seguito di lunghi percorsi con team multidisciplinari, ecco che si alzano le barriere ideologiche».


Prima di poterli assumere, infatti, questə ragazzə vengono sottoposti ad una lunga serie di test, che spesso non fanno altro che rallentarne l’assunzione. «Noi non diciamo che questi vadano assunti come caramelle, al contrario, diciamo solo di intervenire nel momento opportuno, poiché ritardare questi interventi significa lasciare nella sofferenza queste giovani vite, con tutte le gravissime conseguenze che comporta, quando questa può essere alleviata».


Le persone T sono sempre “parlate”, di solito dalle persone cis, che decidono per loro cosa sono, chi sono e cosa possono o non possono fare. E quindi la narrazione passa sempre – ed erroneamente – attraverso concetti come la disforia di genere, la sofferenza e il dolore causato alla tua famiglia. «L' ascolto, il rispetto e il credere a ciò che ti dice un figlio, è la cosa più importante. In quel momento, lui/lei ti sta mettendo in mano la sua vita e il primo passo per me è stato mettere in discussione il mio vissuto per capire ciò che stava vivendo. Anche io, infatti, tramite quest’esperienza, ho potuto vedere il mondo da un’altra prospettiva. Mio figlio mi ha dato la possibilità di rovesciare tutto e di ricominciare. Non scambierei mai questo con la mia vita di prima, perché è solo grazie a mio figlio che ho potuto vivere le tante cose belle che non si conoscono di questi percorsi. Queste persone sono meravigliose così come sono».



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