Linda Nochlin e l'esclusione delle donne dalle istituzioni artistiche
“L’arte, sia per quanto riguarda l’evoluzione dell’artista sia per la natura e la qualità dell’opera in sé, è l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è elemento integrante, mediata e determinata da specifiche e ben definite istituzioni, che possono essere le accademie, il mecenatismo oppure i miti dell’artista, divino creatore, eroe o emarginato.”
Nel 1971 Linda Nochlin pubblica Why Have There Been No Great Women Artists?

Con questo saggio, la storica smonta i presupposti nascosti all’interno di un dispositivo culturale apparentemente naturale attraverso un processo di decostruzione. Il titolo si rivolge provocatoriamente al canone vasariano con un attacco al concetto di genio che escludeva a prescindere qualsiasi donna.
Il genio possiede capacità creative
Il genio accede ad una dimensione privilegiata, è dotato di un talento innato, di un insegnamento divino, attivo e passivo nella creazione, il genio illumina nuove porzioni di mondo: il suo dovere è quello di aumentare gli spazi di luce, deve emozionare, non gli basta seguire le regole, il genio commuove, è il delirio che possiede, fuoco che innalza i pittori al di sopra di loro stessi.
La figura del genio si è evoluta nel corso dei secoli, analizzata da filosofi e storici, ha assunto peculiarità differenti nelle varie epoche, ma questo dono prezioso, innato e mitologico non ha mai caratterizzato l’universo femminile.
Perché non ci sono state grandi donne artiste?
“Nella domanda è insito un insieme di idee ingenue, infondate e acritiche, sul lavoro dell’artista in generale e, peggio ancora, sull’arte alta.”
Il grande artista è dotato di genio: Leonardo, Michelangelo, Pollock, Van Gogh, Raffaello, un corrispettivo femminile non esiste. “
Dietro al problema della donna artista si cela il mito del grande artista: protagonista, eccezionale e divino, di centinaia di monografie, depositario di un’innata essenza misteriosa, chiamata genio o talento, che non mancherà di manifestarsi anche in improbabili o contrarie circostanze.
Il Vasari e gli aneddoti sulle vite
Il Vasari spesso racconta aneddoti riguardo agli artisti del suo tempo, Giotto viene immortalato come un umile pastore che il grande Cimabue scopre disegnare sulla pietra, esterrefatto dalle spiccate doti lo invita a diventare suo discepolo, Michelangelo, in tenera età disegna le impalcature, i vasi e altri strumenti del cantiere di Santa Maria Novella, tant’è che il Ghirlandaio, allo stesso modo di Cimabue, resterà ammaliato di fronte alla manifestazione precoce di un talento innato ed esclamerà: “questo ragazzo ne sa più di me!”.
Questi racconti aneddotici rispecchiano la mentalità che ne è alla base, il tono stesso della narrazione rivela la manipolazione dei concetti. La mitologia del successo del “grande artista” getta premesse inconsce accettate a priori, ma Linda Nochlin sposta l’attenzione sul ruolo fondamentale e tutt’altro che marginale delle istituzioni e delle strutture sociali. “Se le donne fossero state dotate di genio artistico, questo si sarebbe rivelato; e invece non è mai accaduto. Ergo: le donne non hanno genio artistico. Se ce l’hanno fatta Giotto, l’umile pastorello, e Van Gogh, l’epilettico, perché le donne non ci riescono?”
Le istituzioni escludevano le donne
Uscendo dal mondo fantastico della mitologia e ancorandosi alla realtà, ci si potrebbe rendere conto di quanto la domanda perché non ci sono state grandi artiste donne? sia superflua se non inutile da sola, per cui converrebbe approfondire la situazione reale in cui l’arte alta è stata prodotta, evidenziando le classi sociali e i sottogruppi che hanno fatto emergere gli artisti nelle varie epoche che si sono susseguite. Molti pittori e scultori erano spesso figli d’arte, la trasmissione della professione artistica di padre in figlio veniva considerata una consuetudine sociale e inoltre, i figli degli accademici non dovevano pagare le tasse. Per quanto riguarda le donne di alta estrazione sociale, c’era un certo incoraggiamento nei confronti della produzione pittorica come passatempo e non come professione.
Secondo la Nochlin, la scintilla del genio artistico non difetta nella donna, è più verosimile pensare che i doveri, la dedizione alla famiglia non permettessero la devozione richiesta dalla professione artistica. Come del resto non difetta nell’aristocrazia che ha sempre fornito mecenati, conoscitori, intellettuali, ma non ha mai prodotto grandi artisti, solo principianti e hobbisti.
In aggiunta, fino alla fine dell’Ottocento, alle studentesse delle accademie era proibito assistere alle lezioni di nudo, materia principale dei programmi accademici tra il Cinquecento e il Seicento e poi nell’Ottocento quando i difensori della pittura tradizionale sostenevano l’impossibilità di creare dei capolavori con figure abbigliate, perché i vestiti avrebbero rovinato sia l’universalità temporale sia l’idealizzazione classica richieste dalla grande arte.
L’esclusione dalle esercitazioni di disegno dal vero rendeva impossibile la creazione di opere importanti, così le poche donne pittrici si limitavano alla produzione di arte minore: ritrattistica, paesaggistica, nature morte e pittura di genere. Curioso per di più esaminare gli interessanti canoni di decenza: le donne di bassa estrazione sociale erano autorizzate ad esporsi nude per essere scrutate e studiate da gruppi di artisti esclusivamente uomini, mentre le donne rigorosamente abbigliate non potevano accedere alle aule dove era presente un modello femminile o maschile senza veli, l’unico modo per entrarvi era da oggetti. Al grande artista si può contrapporre la figura della “signora pittrice” dei manuali ottocenteschi.
L’arte femminile si produceva in camera da letto o in cucina

Alla fine dell’estate del 1971, le due artiste Miriam Schapiro e Judy Chicago concludono una serie di visite promosse all’interno degli “studi” di alcune artiste. Abituate all’idea di un locale, un loft, uno spazio commerciale completamente dedito alla creazione, rimasero sorprese nel constatare il fatto che queste donne producessero arte in camere da letto, cucine e sale da pranzo.
Solo dopo aver affrontato e in un secondo momento superato il pregiudizio culturale secondo il quale esista un prototipo di studio univoco, adatto allo sviluppo dei propri progetti, è possibile apprezzare pienamente il lavoro delle artiste. Il fatto che queste donne, nonostante l’indubbio talento, vengano etichettate come delle principianti, trova origine nel mito del grande artista che dispone di quella che viene considerata l’unica versione di studio possibile ed efficiente.
Alcune donne crearono degli studi all’interno del proprio spazio domestico in modo tale da rendere la produzione creativa compatibile con le loro attività quotidiane.
Il vero “lavoro” delle donne è solo quello indirizzato alla cura della prole e del marito, ogni altro interesse risulta essere semplice forma di distrazione. C’è da chiedersi quanti artisti sarebbero diventati tali se gli uomini avessero avuto le stesse alternative; se, soprattutto, fin dall’infanzia gli avessero ripetuto che l’unica forma realizzazione da uomini è nel matrimonio e nella cura della famiglia.
A partire dagli anni Settanta, molte artiste femministe hanno esplorato le tematiche inerenti alla sfera domestica e alle tecniche creative quali ad esempio ricamo e cucito come aspetti particolari delle esperienze femminili
Louise Bourgeois, pioniera dell’arte femminista come attesta la sua opera Femme Maison series realizzata appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, fonde il corpo femminile alla casa stessa esponendo la condizione di segregazione di molte donne all’interno delle mura domestiche, situazione che verrà successivamente analizzata da Betty Friedan nel libro The Feminine Mystique. Attraverso il ricamo dei lini d’altare e la decorazione dei piatti cinese per il Dinner Party, Judy Chicago ha voluto sfidare il concetto di arte alta dominata dagli uomini che hanno escluso la cultura delle donne dalle istituzioni relegandola al dilettantismo e mero passatempo.

Didi Dunphy utilizza le tecniche di ricamo per produrre modelli e schemi tipici dell’arte modernista e minimalista, mentre Betye Saar si serve di materiali casalinghi ricontestualizzandoli in modo critico, spesso associa la segregazione domestica alle donne afroamericane che vivono all’interno di un ambiente coercitivo e spendono le loro vite lavorando in condizioni oppressive e di sfruttamento.
Cindy Sherman, artista che è stata associata dalla critica al femminismo post-strutturalista, sfrutta le fotografie in bianco e nero per contestare le immagini popolari che ritraggono le donne come felici casalinghe. La Womanhouse costruita interamente dalle studentesse di Fresno durante il corso tenuto all’Università da Chicago e aperta al pubblico per diverse settimane, permette ai visitatori di entrare all’interno di uno spazio intimo precluso solitamente allo sguardo.