The Life and Death of Marsha P. Johnson: la regina coraggiosa del Village
Marsha Johnson, regina del Village, una delle più grandi, una delle donne più coraggiose al mondo. Io avrei sempre voluto vestirmi da donna, ma non ne ho il coraggio. Lei è tra le poche ad averlo. Complimenti a lui. A lei. O a quello che vuole essere. Inoltre indossa indistintamente vestiti maschili e femminili. È totalmente libero. Se vuole vestirsi da uomo, si veste da uomo. Se si sente donna, da donna. Se decide di mettere i pattini, mette i pattini.

The Life and Death of Marsha P. Johnson è un documentario del 2017
Disponibile su Netflix, ripercorre la vita e la tragica morte di Marsha P. Johnson: attivista statunitense e Drag Queen.
In questo film, Victoria Cruz, avvocata del progetto Anti Violenza LGBTQ+, si propone di risolvere il caso banalmente archiviato come suicidio. In contemporanea, la pellicola segue un altro caso, quello di Islan Nettes donna transgender di 21 anni uccisa nel 2013 da un coetaneo. Questo parallelismo ha forse lo scopo di evidenziare quanto ancora oggi la giustizia sia problematica e limitata nei confronti dei membri transessuali della comunità LGBTQ+.
Molto spesso le indagini vengono svolte in modo approssimativo, come se queste persone fossero cittadini di serie B, inoltre chi commette questi brutali omicidi non sconta una pena adeguata.
Sono tante le donne trans uccise e i loro casi vengono spesso archiviati. Urlano dalla tomba e chiedono giustizia. Se non otteniamo giustizia per Marsha come possiamo garantirla alle persone trans meno conosciute?
Mi sento in dovere di ricordare che all’epoca non si considerava il concetto di fluidità di genere, oggi Marsha verrebbe definita come una persona di genere non binario. Proprio per questo motivo cercherò di utilizzare un linguaggio corretto in quanto sostengo che anche la lingua debba evolversi. In inglese si utilizza “they”, in Italia non esiste questo tipo di inclusione e il linguaggio rimane spesso discriminatorio.
Quando sono arrivata a Stonewall ero la sola drag queen presente. Era un locale per soli uomini.
Sylvia Rivera, cara amica di Marsha e attivista per i diritti dei transessuali, descrive Stonewall Inn come un locale delizioso posseduto dalla mafia:
I gay non eran ammessi nei bar. La mafia allungava mazzette alla polizia. Era tipico del periodo.

In quel locale, nelle prime ore del mattino del 28 giugno 1969, ebbero inizio i moti di Stonewall
Le prime due notti di rivolta furono le più intense e gli scontri con la polizia si tradussero in una serie di manifestazioni che durarono circa una settimana.
Dopo la rivolta di Stonewall, Marsha si unì al Gay Liberation Front e, nel giugno 1970, partecipò alla prima manifestazione Christopher Street Liberation Pride nel primo anniversario dei moti. Nel 1970, assieme ad altri membri del GLF organizzò un sit-in di protesta alla Weinstein Hall della New York University dopo che gli amministratori avevano cancellato un ballo quando avevano scoperto che era sponsorizzato da organizzazioni gay. Poco dopo, insieme a Sylvia Rivera, fondò l'organizzazione Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR).
Nel 1973, i membri della comunità gay proibirono a Marsha e Sylvia di partecipare alla parata affermando che non avrebbero ammesso le drag queen alle loro marce perché avrebbero dato alla manifestazione una brutta nomea. Marsha e Sylvia non si diedero per vint* e marciarono fier* in prima fila.
Darling, I want my gay rights now!
Nel 1972, Marsha e Sylvia fondarono la STAR House, un rifugio per ragazzini gay e transessuali, pagando l'affitto con il denaro che guadagnavano prostituendosi.
A questo proposito è bene ricordare quanto fosse difficile la vita per queste persone considerate abominevoli e allontanate dalla società. Molto spesso non trovavano lavoro ed erano costrette a prostituirsi o a rubare.
Marsha lavorò per fornire cibo, vestiti, supporto emotivo e per dare un senso di famiglia alle giovani drag queen, alle donne transessuali, alle persone genderqueer e agli altri ragazzi gay che vivevano a Christopher Street.
Poco dopo il gay pride del 1992, il corpo di Marsha fu scoperto mentre galleggiava nel fiume Hudson
La polizia dichiarò la morte un suicidio, ma gli amici e altri membri della comunità locale insistettero sul fatto che Marsha non avesse tendenze suicide. Proprio a causa di questa negligenza investigativa, la comunità organizzò una serie di manifestazioni in ricordo di Marsha e per chiedere giustizia.
Diverse persone si fecero avanti per riferire di aver visto Marsha molestat* da un gruppo di persone. Un testimone vide un residente del quartiere lottare con Marsha il 4 luglio 1992. Successivamente si vantò con qualcuno in un bar di aver ucciso una drag queen chiamata Marsha. Il testimone fu però ignorato dalla polizia quando cercò di riferire queste informazioni. Altri locali raccontarono che le forze dell'ordine non erano interessate a indagare sulla sua morte, affermando che il caso riguardava un “omosessuale” con cui si desiderava avere poco a che fare in quel momento.
Di certo non è suicidio, è un insulto alla sua famiglia.
Nel novembre 2012, l'attivista Mariah Lopez riuscì a far riaprire il caso dal dipartimento di polizia di New York come possibile omicidio.

Victoria Cruz ha una forza straordinaria
Nel 1996 mentre lavorava in una casa di cura è stata molestata da quattro colleghe, grazie al progetto Anti Violenza ha riportato il fatto e due donne su quattro sono state considerate colpevoli. A partire dal 1997 ha dedicato la sua vita alla causa LGBTQ+ aiutando vittime di stupro e violenza.
In questo documentario è possibile constatare con amarezza quanto sia difficile cercare di dare voce e garantire giustizia alle persone della comunità, troppo spesso le prove sono lacunose ed è lampante il fatto che non ci sia volontà alcuna da parte delle forze dell’ordine di risolvere nel miglior modo possibile questi casi. La mentalità che tende a considerare queste persone come dei cittadini di serie B è ancora diffusa e deriva dalla cultura patriarcale.