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We Are Who We Are: un viaggio travagliato alla ricerca di sé



Tra le novità seriali più interessanti degli ultimi mesi c’è We are Who we Are, miniserie in 8 puntate prodotta da The Apartment, Wildside e Small Forward, trasmessa su HBO e Sky Studios e creata da Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway.

La serie è ambientata nel 2016 in una base militare americana a Chioggia e segue in particolare le vicende delle famiglie di due adolescenti, Fraser, interpretato da Jack Dylan Grazer, figlio di un’ufficiale (Alice Braga) e del nuovo colonnello della base (Chloë Sevigny) e Caitlin, interpretata dall’attrice non-binaria Jordan Kristine Seamón , figliə di un ufficiale conservatore (Kid Cudi). La serie analizza in profondità la relazione che nasce tra Fraser e Caitlin, due personaggi alquanto complessi e sfaccettati.


Fraser infatti, è un ragazzino che maschera la sua immaturità di 14enne con la cultura, legge Burroghs e Ocean Vuong e passa le sue giornate con le cuffie nelle orecchie nella sua cameretta costellata da poster di film di Lynch e Bertolucci. Sotto questo strato di saggezza e indifferenza si nasconde però una personalità bisognosa di affetto e di conferme esterne, rabbiosa, sofferente di quella cieca ostilità che può capire solo chi ha quattordici anni. Caitlin, dal canto suo, è una persona taciturna ma cordiale e amichevole, ha una comitiva numerosa che accetta con fatica il nuovo amico, in cui ləi vede un vero e proprio punto di riferimento. È lui infatti che in qualche modo lə svela il falso mito del binarismo di genere, introducendolə al concetto di gender fluidity che in realtà Cate aveva sperimentato già da tempo: la ricerca della sua identità la porta ad esplorare e a conoscere nuovi mondi, ad aprirsi alla novità e ad accettare il suo voler essere Harper, il nome che utilizza in questo viaggio alla ricerca di sé.

We are Who We Are è una serie sull’adolescenza ma soprattutto sulla fluidità, sul divenire e sul mischiarsi, la stessa base militare è come una piccola colonia americana in territorio italiano, un incontro/scontro inevitabile tra culture e modi di vivere che non sempre coesistono pacificamente. Nella serie infatti, nessun personaggio sembra sentirsi al proprio posto: Maggie, la madre di Fraser, è una donna brasiliana cittadina degli USA che si ritrova a vivere in Italia e Jenny (Faith Alabi), la madre di Caitlin, non è nata né negli Stati Uniti né nel posto in cui abita. Anche Sarah, d’altronde, il nuovo colonnello, deve affrontare la difficoltà di inserirsi in questo ambiente di confine e imporre la sua autorità che verrà messa in discussione drammaticamente in più momenti. Questo senso di smarrimento e di mancanza è anche riscontrabile nella regia, che spesso utilizza lunghe scene fisse e inquadrature vuote che mettono in relazione l’estraneità del soggetto rispetto al suo ambiente.

Ma We Are Who We Are, come già detto, è anche una serie sull’adolescenza, quest’età di passaggio e transizione in cui non si è più bambini ma non si è nemmeno già adulti, quel limbo -fluido- così segnante per la personalità di ognuno di noi. Questa età può essere l’età della spensieratezza, della leggerezza, delle prime esperienze che coincidono in qualche modo con la prima parte della stagione che culmina con la 4 puntata, in cui l’idillio giovanile si esprime appieno in una delle sequenze più belle della serialità del 2020, per poi iniziare a disintegrarsi a partire dalla quinta puntata. Infatti la serie risulta come divisa in due, una prima parte di setting volta ad approfondire l’ambiente e le dinamiche psicologiche dei personaggi e la seconda parte che inizia proprio con lo sgretolarsi di quest’ordine come ci era stato presentato: quando l’ordine si sgretola però, lo fa violentemente, portando tutti i personaggi a venire a patti con le proprie emozioni. Francesca Manieri in Behind the episode 8 spiega che l’obiettivo della serie è proprio quello di rompere l’iper-semplificazione del concetto di identità e della ricerca del sé, che conseguentemente porta ad un’analisi acuta dell’adolescenza.


La cura nei dettagli poi è evidente, dalla scenografia ai costumi, curati da Giulia Piersanti, storica talentuosa collaboratrice del regista, fino alla colonna sonora che spazia da Klaus Nomi a Calcutta, David Bowie, CCCP e Blood Orange che figura peraltro come guest star e autore della soundtrack. Tutti questi dettagli insieme contribuiscono alla creazione di un’atmosfera sospesa, liminale, che porta lo spettatore ad immergersi totalmente in questo mondo di finzione.

We Are Who We Are affronta temi contemporanei come l’identità di genere, l’orientamento sessuale, il rapporto con la religione e con i genitori ma lo fa in modo quasi accennato, lasciando l’interpretazione a noi che guardiamo lasciando che le riflessioni si sviluppino spontaneamente: d’altronde è lo stesso che accade ai nostri protagonisti, fluidi e non etichettabili in nessun modo e alle prese con queste questioni così fondamentali. Un altro degli obiettivi dei suoi creatori è inoltre quello di rendere il senso di reale libertà che dovrebbe accompagnare l’esplorazione del sé rompendo ogni tipo di schema identificativo binario e categorizzato, semplicemente lasciando che tutto scorra e che prenda forma spontaneamente.


We Are Who We Are è una serie ben scritta che sembra aver grande rispetto dei suoi protagonisti, tendendo a proteggerli dal giudizio degli spettatori peccando però in alcuni momenti di una certa superficialità soprattutto nella costruzione dei personaggi di contorno.


In ogni caso la serie con i suoi tratti cinematografici, la sua capacità straordinaria di saper descrivere gli adolescenti e la loro filosofia nichilista e allo stesso tempo curiosa (“We don’t exist” urlano emozionati Fraser e Cate durante l’ultima puntata), risulta una delle produzioni più ambiziose e meglio riuscite del 2020.



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